Sarah Mustafa è una scrittrice italo-palestinese. Nel suo romanzo di esordio, La spia ha i capelli rossi, unisce la realtà alla fantasia. In questa intervista di Barbara Amalberti, Sarah ci parla di come la scrittura l’ha aiutata a gestire le emozioni contrastanti di una vita tra due mondi.
La spia ha i capelli rossi è un romanzo, ma nasce dalla tua esperienza personale, la tua infanzia passata tra Pavia e il campo profughi palestinese in Giordania. Come sono stati per te quegli anni tra due realtà, tra due mondi completamente diversi, tra due culture?
La spia ha i capelli rossi è un romanzo, sì, ma affonda le radici nella mia esperienza personale. Tra il 1985 e il 1996 ho vissuto un’infanzia spaccata tra due mondi opposti: Pavia, la città in cui sono nata, e un campo profughi palestinese in Giordania, dove sono stata portata a sei anni. È difficile spiegare cosa significhi essere sradicati così presto, passare da una casa con il riscaldamento, il bagno in camera, l’acqua potabile sempre disponibile, a una realtà dove queste cose semplicemente non esistono.
Non c’era il letto, non c’era il bagno. L’acqua bisognava andarla a prendere, e usarla con attenzione. La lingua era un altro muro: ho imparato l’arabo così immersa da dimenticare l’italiano. Un anno di scuola perso, passato a cercare di capire i suoni, i caratteri scritti da destra a sinistra, la grammatica, i codici culturali. Ogni cosa era diversa. Anche il cibo: spezie nuove, sapori forti, abitudini che inizialmente non capivo.
Però c’era anche un senso di comunità fortissimo. In quella nuova vita ero circondata da cugini, zie, vicine di casa, insegnanti che si sono prese cura di me. Non ero mai sola. Questo ha reso tutto un po’ più facile.
E poi, a 17 anni ho dovuto fare il percorso al contrario. Tornare in Italia, riabituarmi alla lingua, al sistema scolastico, al fatto per esempio di frequentare una classe mista, ai ritmi e agli spazi diversi. Anche lì è stato un altro sradicamento, un altro inizio. E devo dire che trovare delle amiche che sono andate oltre le mie difficoltà linguistiche e culturali ha fatto la differenza per quanto riguarda l’aspetto sociale. Ho avuto la fortuna di incontrare degli insegnanti molto umani anche in Italia in una scuola pubblica, pensa che si fermavano a darmi qualche spiegazione in più con tanta pazienza anche fuori dall’orario scolastico. Cerco sempre di ricordarmi di aver incontrato tanti angeli custodi nel mio percorso tortuoso.

In questa risposta riesci a descrivere molto bene, sia dal punto di vista pratico che emotivo, un periodo molto intenso della tua vita. Com’è stato per te rivivere quegli anni e trasformare quelle esperienze ed emozioni in un romanzo?
E’ stato un processo lungo una vita, con tutti gli alti e bassi del caso. Ci sono stati periodi in cui mi sentivo più vicina alla cultura araba, altri in cui rifiutavo tutto ciò che non fosse italiano. E viceversa. Ho passato fasi in cui rigettavo una parte di me per aggrapparmi con forza all’altra, come se potessero esistere solo in alternativa e non insieme. Penso che fosse un meccanismo dell’inconscio talvolta per omologarmi ai miei coetanei e assomigliare il più possibile a loro, altre volte per distinguermi e diventare completamente diversa da loro. Credo che fosse anche in funzione di quanto andassi d’accordo con uno o l’altro genitore di volta in volta… insomma come vedi è un argomento molto complesso.
È stata proprio la scrittura a permettermi di fare pace con queste due metà. Scrivere il romanzo è stato un viaggio dentro di me, mi ha aiutata a mettere a fuoco il valore profondo del mio DNA misto, quella ricchezza di cui i miei genitori parlavano con orgoglio e che io, faticavo a capire. Nel romanzo, se ci pensi, la chiave di tutto nasce proprio da lì: dal momento in cui la protagonista riconosce che il suo punto di forza non sta nello scegliere una parte, ma nel tenere insieme entrambe. Ecco, quel passaggio è stato catartico anche per me. Scriverlo è stato un modo per darmi una risposta che, per anni, non ero riuscita a trovare.
Da mamma con figlie cresciute tra due culture, le tue parole mi fanno molto bene. Il potere della scrittura! Il libro racconta fatti drammatici e tristemente attuali, c’è tanta sofferenza ma anche mistero e avventura che, in un certo senso, alleggeriscono la lettura. È stata una scelta consapevole?
Sì, certo, è stata una scelta del tutto consapevole. Ho scritto il romanzo che piacerebbe leggere a me: un mistero, un’avventura, un viaggio con lo sfondo della Storia. Volevo che ci fosse tensione, colpi di scena, ma anche sostanza. Ho scelto questa struttura proprio per intrigare il lettore, soprattutto chi si avvicina per la prima volta al tema del conflitto in Medio Oriente.
L’idea era questa: agganciare il lettore fin dalle prime pagine con la curiosità di seguire la protagonista, di scoprire insieme a lei verità nascoste, segreti di famiglia, eventi più grandi di lei… e alla fine lasciare qualcosa in più. Un piccolo omaggio: una comprensione più ampia, più profonda, di una realtà complessa e spesso raccontata in modo superficiale. Se anche un solo lettore chiude il libro sentendo di aver imparato qualcosa sul mondo mediorientale, allora per me ha funzionato. E poi quel mistero di cui racconto mi ha sempre affascinato fin quando da piccola ascoltavo i racconti di mia nonna e mi è piaciuto molto riuscire a romanzarlo con un intreccio così complicato.
Ci sei sicuramente riuscita e da lettrice confermo di essere stata “agganciata” dalle prime pagine. Nel libro Leyla ritorna in Giordania e visita i luoghi e le persone della sua infanzia. Tu sei mai tornata?

Sì certo, ci torno almeno una volta all’anno. é una necessità fisica, dopo un pò iniziano a mancarmi i sapori, gli odori, i colori, gli affetti…parte delle mie radici. Gli stessi che inizialmente avevo sentito estranei, che non sempre hanno fatto parte di una cornice piacevole, non posso far a meno che rifarci un tuffo.
I primi tempi era tutto più difficile e più costoso, oggi grazie ai social e alle compagnie low cost è diventato tutto più facile. Ma ci torno anche con la mente per ricordare a me stessa il mio percorso, ogni volta che mi sento insicura o abbattuta, questo mi dà molta forza devo dire.
Sembra che scrivere La spia ha i capelli rossi sia stato, in parte, un percorso terapeutico. A un anno dalla pubblicazione, che cosa ha lasciato in te questa esperienza? Ti ha cambiata? E se si, in che modo?
È stato come fare un upgrade di me stessa. È cambiato tutto. A partire dal mio modo di parlare: scrivere, riscrivere, revisionare, ti costringe a scegliere ogni parola con cura. E il fatto di aver partorito un intero romanzo in lingua italiana mi ha dato finalmente la sicurezza di padroneggiare un linguaggio che, per anni, sentivo non del tutto mio.
È cambiato anche il mio rapporto con le persone. L’affetto, la partecipazione e l’accoglienza che ho ricevuto con questo romanzo mi hanno fatto vedere con i miei occhi quanto bene ci sia intorno a me. Penso che il giorno più bello della mia vita sia stato quello della prima presentazione. Di solito alla prima di uno scrittore esordiente ci sono solo amici e parenti. Sai quante persone c’erano in sala? Almeno ottanta. Ottanta persone lì per me. Una gioia che porterò dentro per sempre.
E poi sì, oggi sono più serena. Ho fatto pace con i miei due mondi, ho messo a fuoco la mia identità mista, e vedere questa mia complessità e ricchezza diventare un libro mi ha dato un senso profondo di compiutezza. Anche nella vita quotidiana è cambiato tutto: oggi parlo, influenzo, sono salita in cattedra, ho portato la mia voce in università, scuole, eventi con persone che mai avrei pensato di incontrare. Ho ricevuto un premio, che ho ritirato a Palazzo Giustiniani, al Senato della Repubblica per intenderci.
Cosa posso dire se non: Alhamdulillah. Sono grata.
Un bellissimo modo per concludere questa intervista, Sarah. E io sono grata a te per esserti raccontata così apertamente.
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