Ho conosciuto Renzo a Melbourne, quando i nostri bambini erano piccoli e le conversazioni erano spesso interrotte e tendevano a restare leggere e poco impegnative. Ma ho sempre saputo che se ne avessimo avuto l’occasione, avremmo potuto chiacchierare per ore sui problemi del mondo. Leggere il suo primo libro, Tra le rovine dell’impero, mi ha dato lo spunto per tante bellissime discussioni, che ora che ci avviciniamo entrambi all’Italia, spero potremo avere tra un piatto di trofie e una cacio e pepe.
Il tuo lavoro ti ha portato a vivere in diverse città del mondo, cosa ti ha spinto a dedicare il tuo primo libro proprio a New York?

La scrittura è per me molto importante perché è il mezzo attraverso cui riesco meglio a riflettere sulla vita e sul mondo; quindi, in realtà, ho scritto tanto, dovunque io abbia vissuto, anche solo per brevi periodi. Gli articoli che pubblicavo quando vivevo a New York, però, riscuotevano un forte interesse e già allora l’amico editore Paolo Finzi, aveva progettato di raccogliere in volume quegli scritti. Al mio ritorno in Europa ho deciso di rivedere tutto il materiale e scriverci un libro intero perché mi sono reso conto che gli USA rappresentano ancora oggi qualcosa di davvero particolare per gli italiani e per gli europei e che, in fondo, il mito dell’American Dream non è mai morto. Quanti italiani sono andati in America in cerca di fortuna! New York, poi, esercita un fascino che, dopo averci vissuto, trovo assolutamente sorprendente, ma è innegabilmente una delle città più amate al mondo. Credo si possa affermare che dal dopoguerra in poi gli USA hanno permeato le nostre vite; le loro guerre ci hanno riguardato, le grandi battaglie per i diritti civili ci hanno coinvolto, la loro industria culturale, dalla musica al cinema ha dominato, offrendoci un modello di vita che è stato ovunque adottato o almeno immaginato come desiderabile. Proveniendo da un paese che ha un forte legame con gli USA e ospita ancora oggi sul suo territorio basi militari e testate atomiche americane, dove molti miei concittadini coltivano ancora un’immagine abbastanza mitologica e hollywodiana della realtà statunitense, mi sembrava importante riflettere su tutto questo ed è quello che ho fatto a partire dalle mie esperienze dirette, dalla vita vissuta, dalle persone che ho incontrato in sei anni molto intensi. Ne esce un quadro complesso e, spero, interessante, che ognuno poi può guardare dall’angolatura che preferisce, per trarne ispirazione.
So di essere un’eccezione visto che per me il mito dell’American Dream è finito con la mia adolescenza. Leggendo il tuo libro ti ho seguito in un viaggio in una New York che pensavo esistesse solo nella mia più cinica immaginazione. Credo non sia stato facile vivere negli Stati Uniti con la tua crescente consapevolezza. Come sei riuscito a mantenere una mente lucida, a non smettere di voler sapere e conoscere, a proseguire nella tua esplorazione profonda della società newyorkese e statunitense?
Ti confesso che ci sono stati periodi molto difficili, non sono rimasto sempre lucido. La tentazione di mollare tutto in certi momenti è stata forte, anche semplicemente per questioni molto personali, familiari; per lo scoraggiamento che ha colpito mia moglie quando le è stato negato il permesso di lavoro o per certe incomprensioni da parte di professori maldestri che hanno rischiato di emarginare mio figlio a scuola. Quella volta, in preda allo sconforto, ho persino scritto la mia prima e unica poesia in inglese ed era molto dura, non la farei leggere a nessuno! A lungo andare New York, gli Stati Uniti, ci hanno logorato, sono stati sei anni che sembravano trenta. Però ho un gran senso del dovere e non sarei mai venuto meno agli impegni che mi ero assunto dal punto di vista professionale, men che meno durante la pandemia, periodo in cui ho dovuto garantire un servizio di assistenza e sono rimasto ancorato a New York per molti mesi. Allora, ho cercato di dare un senso a quella residenza andando al fondo delle cose: per me, che fin da ragazzo ho avuto chiaro in mente il concetto di imperialismo americano, che facevo le marce contro le testate nucleari a Comiso, che odiavo il western alla John Ford e parteggiavo per gli “indiani”, che ero rimasto stupito dal fatto che la segregazione razziale fosse stata accettata per decenni come una questione normale, quella di vivere a New York e conoscere intimamente tanta gente è stata un’occasione davvero unica per cercare di capire una società che tutti pensiamo di conoscere, ma che invece ha una complessità che ci è oscura. Vorrei però anche sottolineare che non tutto è stato negativo, perché comunque ho avuto il privilegio di incontrare tanta gente indignata che lotta spontaneamente e coraggiosamente per cambiare, ho partecipato a decine di manifestazioni del Black Lives Matter, ho frequentato i nativi che ancora lottano per i loro diritti. Quindi ho portato con me anche tante emozioni buone, storie di resistenza che porto nel cuore.

Nelle pagine di Tra le rovine dell’impero ho trovato molti dei sentimenti di rabbia, impotenza e frustrazione che mi assillano vivendo in Australia. Anche l’Australia è il sogno di tanti e si conosce molto superficialmente. Forse la differenza è che non ha la grande influenza degli Usa sul resto del mondo. Mi rendo anche conto che questa negatività cresce con gli anni e con la mia maggiore consapevolezza. Quando ci siamo conosciuti, all’inizio del secolo, con le bimbe piccole, ero focalizzata su come la mia vita a Melbourne fosse resa semplice da una serie di servizi che non avrei avuto altrove. Ora guardo più a fondo. Cosa ne pensi?
Penso che tu abbia ragione e capisco bene i tuoi sentimenti. Ho vissuto in Australia nel primo decennio del 2000 e ci sono arrivato con i bambini piccoli; fuggivamo da una Roma caotica e invivibile dove crescere figli era davvero faticoso ed è stato inevitabile innamorarsi di un paese che sembrava accoglierti a braccia aperte e dove la vita per una famiglia era molto più facile. L’Australia ci ha dato tanto. Questo però non significa che non abbiamo visto i lati oscuri del paese, come il trattamento durissimo riservato ai rifugiati, la questione delle nazioni indigene che versano in condizioni vergognose, nonché l’assoluta sudditanza all’alleato USA, per cui non c’è guerra promossa dagli Stati Uniti che non abbia visto il coinvolgimento diretto dell’esercito australiano. Del resto, non credo che esista al mondo una nazione perfetta e ovunque io mi trovi cerco sempre la vicinanza con quelli che evangelicamente potremmo definire gli “ultimi”.
Però, sebbene io comprenda come si sono sviluppati i tuoi sentimenti nei confronti di quel paese, mi sento di affermare che non sarebbe corretto costruire un’equazione fra le due nazioni. I miei vicini di casa a Sydney sostenevano come australiani e statunitensi avessero modi simili di guardare alla vita, gli stessi valori, le stesse aspirazioni. Dopo aver vissuto negli USA posso testimoniare che invece si tratta di due mondi assai distanti, proprio nel modo di vedere la vita, la famiglia, i valori. Anche l’Australia, come tutte le nazioni, ha i suoi miti fondativi, ma non risiedono certo nella convinzione di avere una missione divina da portare a compimento, come immagina l’americano medio. Mi piacerebbe che il mio libro venisse tradotto e letto in Australia, perché potrebbe servire a mettere in luce queste differenze che per me sono sostanziali. Resta il fatto che se mai tornassi a vivere a Melbourne, che immagino molto cambiata, tornerei anche a protestare per i diritti dei rifugiati e degli aborigeni.
Grazie per questo chiarimento.
Il tuo libro è ricco di informazioni, ma anche di umanità. Oltre alle tue esperienze personali, agli incontri e ai viaggi, che rendono Tra le rovine dell’impero quasi un racconto epistolare, troviamo descrizioni dettagliate di eventi storici, discorsi politici, date significative che testimoniano una grande ricerca da parte tua. Come ti sei organizzato, anche dal punto di vista pratico, per scrivere un’opera così densa e arricchente?

La gestazione del libro è stata lunga, se tieni conto che ho cominciato a raccogliere il materiale alla fine del 2014. Tolti un paio di capitoli che ho scritto quasi di getto, sull’onda magari di un moto di indignazione, tutto il resto è frutto di lunghe riflessioni, ricerche, approfondimenti. Fotografo tanto e mi appunto tutto quel che mi capita o che osservo; conservo agende, articoli e commenti, pezzi di riviste, pubblicità e volantini, persino gadget. Il libro può essere letto come una sorta di viaggio, con un arrivo e una partenza, ma quando si è trattato di rimettere mano a tutto quel materiale ho deciso soprattutto di ordinarlo tematicamente individuando alcuni argomenti che mi parevano fondamentali. È stato anche importante, per me, corroborare qualsiasi informazione con dati sicuri per cui, anche se racconto storie e scrivo di gente inconsueta e di luoghi strani, dietro ad ogni capitolo ci sono, come hai ben intuito, studi rigorosi. Nella trentina di pagine che ho dedicato ai nativi americani ho inserito i miei incontri con gli “indiani” ma, per essere certo di non scrivere cose sbagliate, ho anche letto qualche migliaio di pagine di studi in materia e, per avere la certezza di parlare di “Ground zero” senza offendere in alcun modo la memoria delle vittime, ho trascorso molto tempo nelle biblioteche e girato tutte le librerie di New York a caccia di libri che sembravano introvabili. È stato molto importante e arricchente anche il confronto con l’editor, Cristina Loizzo, che ha letto il manoscritto con grande attenzione, costringendomi talvolta a rintracciare riferimenti ormai sepolti nelle mie sterminate cartelline di appunti e anche a riscrivere, migliorandoli, interi capitoli. Insomma, dato che ho un lavoro molto impegnativo, questo libro è frutto anche di molte ore strappate al sonno e di infinite mattine che mi trovavano alla tastiera ben prima che il sole facesse capolino, perché io scrivo soprattutto all’alba, prima di andare al lavoro. Il resto del tempo è però ancora più importante: nella scrittura c’è la tecnica che ho sviluppato in tanti anni, ma per riempire le pagine di quell’umanità che tu hai incontrato leggendole, è stato fondamentale soprattutto uscire dalle mura domestiche e incontrare gli uomini e le donne che compongono quel mosaico che chiamiamo “America”.
Renzo ti ringrazio di cuore per il tempo che ci hai dedicato. Il libro si trova in qualsiasi libreria in Italia, magari ordinandolo come ho fatto io, o si può acquistare direttamente dalla casa editrice a questo link.
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